EFFETTIVO-AFFETTIVO
di Elisabetta Longari
“E’ sconcertante, in effetti, il vuoto in cui il nostro pensiero si perde quando tenta di afferrare in che cosa consista la realtà di una persona”.
Roberta de Monticelli, La conoscenza personale,
Tutto si può far risalire all’intenzione di Paola Mattioli di fare un ritratto fotografico ad Aurelio, a lui e alla sua pittura (del resto non potrebbe essere altrimenti: ciò che siamo coincide largamente con ciò che facciamo).
Questa occasione si è rivelata fondamentale: ha sollecitato in lui una riflessione su quello che è e potrebbe essere il ritratto e gli ha fatto nascere il desiderio di restituire quello stesso dono.
Eppure non lo ha distolto dall’assolutezza della pittura; ma lo ha portato in qualche modo a “farla passare dal monologo al dialogo”, prendendo per la prima volta spunto da una realtà esterna a sé, ma non evidentemente estranea.
Questo ciclo di ritratti si configura infatti originariamente come risposta, come dono all’Altro del proprio punto di vista sull’Altro.
Ogni dipinto di questa serie deriva dall’esperienza diretta che Sartorio ha di un determinato individuo, con cui ha instaurato un rapporto e di cui può dire di avere una certa conoscenza.(Niente di epidermico, quindi). A questa persona il quadro è rivolto e dedicato: ad un Altro effettivo e “affettivo”.
La scelta di fare dei ritratti astratti non deve sembrare né una contraddizione in termini nè l’annuncio di un ripensamento sul piano della prassi e della poetica. Dimostra semplicemente una vocazione al paradosso che preserva l’ambiguità essenziale delle persone, delle cose, del mondo. Non è neppure una sfida più ardua che dipingere qualsiasi altro soggetto. È semplicemente il modo di portare ad uno stato d’incandescenza la natura problematica del ritratto, e quella della pittura stessa e del suo rapporto con la realtà.
Il ritratto astratto dichiara apertamente di configurarsi innanzi tutto come problema pittorico (non psicologico, o metafisico o anedottico). Liberandosi immediatamente dalla funzione di rappresentare vicariamente qualcuno, pretende la sua estraneità ai problemi
della somiglianza e della verisimiglianza e si schiera automaticamente dalla parte della “verità del sentire” e quindi del vedere.
Portando in primo piano le radicali istanze di ogni interpretazione (libertà e relatività), il ritratto astratto sembra volere preservare, e riuscirci, soprattutto quel qualcosa di lontano ed enigmatico, ”cifrato” e “geroglifico” del nostro essere.
Allo stesso tempo il ritratto di Sartorio sembra rispettare in modo sostanziale la propria “doppia”, ambigua valenza etimologica: il ritratto come rappresentazione/ripresentazione e come sottrazione, allontanamento.
Sartorio sceglie tra diverse morfologie e diverse cromie quelle più adatte ad “inscenare” la percezione che egli ha di ciascuno. Ad ognuno mette sotto gli occhi ciò che vede e crede essere “l’asse generatore” di quel qualcuno. Mescola indifferentemente i piani interpretativi, evidenziando di alcuni individui soprattutto gli aspetti fisici del corpo, mentre di altri sottolinea lati più o meno evidenti della personalità, di altri ancora, invece, per lo più pittori, sembra avere in mente soprattutto il lavoro.
Questa disinvoltura sul piano interpretativo prova la verità di quanto afferma Simmel a proposito della percezione: “Come abbiamo un’esperienza totale, così abbiamo anche una percezione totale” che, solo per ataviche ragioni di ordine filosofico sviluppatesi nell’ambito della cultura occidentale, risulta scomponibile nelle dimensioni dello “spirituale” e del “corporeo”.
Profondamente diversi fra loro sia dal punto di vista dell’organizzazione dello spazio sia per l’impiego dei colori (anche se Sartorio afferma di aver usato qui cromie a lui abitualmente lontane), questi ritratti presentano alcune costanti, le stesse costanti che si rintracciano del resto agilmente in tutta la più recente pittura dell’artista. Soprattutto la natura del corpo del colore il suo organismo caldo, la sua fisiologia ricca e la qualità “lavorata” delle stesure che “incorporano” il tempo come dimensione inevitabile alla gestazione, alla sedimentazione, alla realizzazione giocano un ruolo fondamentale. Conferiscono ai campi, seppure calibratissimi, una decisiva attitudine alla mobilità, un loro modo di strutturarsi quasi a carattere “momentaneo”, come “figure” che sono “momenti” di un flusso rispondente al processo vitale e al suo divenire.
“Il ritratto ha il compito di presentare l’unità sovratemporale della personalità”, come scrive Florenskij ; ma è altrettanto vero che esser vivi significa non raggiungere mai un “assestamento”, una “definizione”, che la nostra condizione comporta la difficoltà, l’impossibilità di crearsi e mantenere permanente un’idea di sé e degli altri. E’ soprattutto in relazione all’immagine di sè che si impone maggiormente questa impossibilità, che irrompe la cecità. Tanto è vero che le persone “ritratte” da Sartorio hanno avuto molte difficoltà a riconoscere sè stesse, mentre di fronte alle “immagini altrui” senza fatica ne hanno identificato il soggetto.
Pertanto il ricorso al piccolo formato un formato standard al quale siamo profondamente abituati nella vita quotidiana, quello di un foglio di carta A4, che palesa ulteriormente la lontananza di questi ritratti da ogni intento monumentale assume qui un senso quasi da “specchio portatile”.
PS . Anche io avrei voluto restare nei limiti dello stesso formato, ma le parole “dicono” meno delle immagini.
Elisabetta Longari
Ginestrei (Madonna del Sasso), agosto 1999.