COLORI PER RIFLETTERE SUL COLORE

di Claudio Cerritelli

La pittura di Aurelio Sartorio è ricerca strutturalmente rigorosa e, al tempo stesso, aperta a scoperte intuitive che interferiscono con i principi costruttivi del colore, superando le metodologie razionali attraverso tensioni percettive instabili, cangianti, mai rassicuranti.

Le ragioni teoriche del “pensare pittura” non prevalgono sul flusso degli equilibri sperimentati nell’atto del dipingere, gli esiti di ogni opera sono dunque una continua verifica di relazioni tra spazio e colore, tra il formato della superficie e l’intensità delle velature, tra il pieno e il vuoto delle cosiddette rigature, nonché all’interno degli spostamenti ritmici degli spazi intermedi.
Rispetto alle posizioni radicali della “pittura costruttiva” Sartorio gioca sulle contraddizioni interne alle regole preliminari, indaga i diversi momenti di stabilizzazione della luce totale, coglie l’armonia delle tonalità attraverso un esercizio problematico, percorso da sottili variazioni, minimamente visibili.

La scelta di una griglia ortogonale di base ( i formati preferiti sono quadrati e rettangoli) comporta un processo di lavoro che si muove da una regola empirica per sviluppare tensioni intuitive all’interno dell’ordine stabilito. Non si riscontra mai l’osservanza di principi matematici, l’immagine è controllata per via di equilibri asimmetrici sospesi tra molteplici gradazioni cromatiche.

Sartorio inventa infatti colori strani, pesi luminosi diversi a seconda della grandezza, realizza “colori non puri” che nascono dalla congiunzione di dualità luminose, luci che stanno tra il rosso e il lilla, tra il blu e il verde, tra il bianco e l’azzurro, solo per fare alcuni esempi. L’artista esplora zone di confine tra identità che si modificano in un’altra essenza cromatica, in una nuova regola che risulta dall’evento dialettico del colore, questa è la sfida specifica che permette di cogliere effetti inconsueti di luce, dissonanze e differenze, bagliori e luminescenze senza referenti. Il fatto è che Sartorio predilige la trasversalità, non si affida ai cromatismi convenzionali, preferisce giocare sull’ambiguità visiva dei colori che oscillano sul crinale dello sguardo, non a caso è attratto da quella vena di pazzia che anima la pittura dei manieristi, capace di far nascere un “nuovo colore” attraverso filtri di luce non naturalistica.

Pittura intima, drammatica, solitaria e pacata, si legge in un appunto di lavoro di Sartorio, queste definizioni inquiete del dipingere ne accrescono la forza, rivelano un pathos che non esclude le sfumature emozionali del soggetto.

Nelle opere scelte per questa mostra i colori sono forti e contrastanti, gli accordi strutturali si modificano attraverso calcolate mutazioni di tono, la fusione delle varie parti è sempre in bilico tra valori luminosi freddi e caldi, eterne antinomie della luce non sempre prevedibili nella sintesi dell’immagine. Proprio per questo, Sartorio concepisce la pittura come una disciplina velata da segrete tentazioni oltre la soglia del visibile, un’arte che non cede alle lusinghe della geometria e inventa colori per riflettere sul colore.

Claudio Cerritelli per la Mostra alla Galleria Miralli di Viterbo

A RIGHE: IL RISVEGLIO DELLA SUPERFICIE

di Elisabetta Longari

Quella di Sartorio sembra ed è a tutti gli effetti una pittura astratta, cioè un’esperienza concreta che porta la superficie di un quadro, dopo una serie di modificazioni, al raggiungimento di un determinato assetto formale e cromatico. La tela, una volta dipinta da Sartorio, lontana da ogni tipo di esercitazione compiuta nell’ortodossia gestaltica, funziona per “l’occhio e lo spirito” dello spettatore come un insieme di fatti e sollecitazioni primariamente percettivi; e si presenta anche, per un certo tempo iniziale, come un sistema articolato di enigmi.
Ogni quadro funziona come dimostrazione che tutti i vedenti vedono ma non tutti sanno quello che vedono e come lo vedono; e soprattutto che è impossibile vedere il vedere.
In ogni suo quadro, ma sarebbe più giusto dire in ogni testo visivo, l’autore propone allo spettatore un cammino che va dalla fisiologia alla filosofia della visione e ne chiarisce i termini delle interne contraddizioni. Cerchiamo adesso di vedere in che modo.
È solo a partire da un processo giocato tutto “sul campo”, senza schemi aprioristici, governato pertanto “passo per passo”, momento per momento, da un susseguirsi di considerazioni e di azioni strettamente afferenti all’ambito percettivo, risposte temporanee alla domanda “com’è costituita la nostra immagine visiva?”, che la pittura di Sartorio perviene all’organizzazione di sé in diverse “figure” (laddove per figura non si può mai evidentemente intendere qualcosa di riferibile all’iconografia del corpo umano; ciò che “salta agli occhi” guardando queste superfici è infatti la prepotenza della riga).
I suoi quadri si animano del ritmo della griglia cromatica, in quanto l’unico elemento del quadro è la sua stessa struttura. Nessuno spreco o distrazione: il colore è direttamente formante, non c’è spazio per l’antica tradizionale frattura tra forma e colore, tra linea e colore, tra contorno e colore . Più che corrispondenza, v’è coincidenza. “ Nella misura in cui si dipinge, si disegna” affermava Cézanne.
Ricercatore instancabile di fenomeni ottici e indagatore di leggi con lo scopo di metterle alla prova, interrogarle e sabotarle sottilmente per quel loro margine di ambiguità che sempre permane, Sartorio sfida continuamente il concetto di equilibrio. Gioca sui margini, si tiene in bilico e crea forti ma sempre nuove e inquiete unità strutturali, tenta “altre” relazioni possibili tra le diverse forze in campo. Per farlo in modo radicale ed efficace, ha scelto in questa fase - come fu per Mondrian , se proprio si vuol cercare la radice del suo albero genialogico- di ridurre l’organizzazione della superficie a una distribuzione secondo le direttive ortogonali, ma diversamente dal maestro olandese, non mortifica il colore limitandosi ai primari, anzi distilla succhi cromatici desueti e un poco velenosi, dai toni raramente rassicuranti che sarebbero molto graditi ai manieristi.
Come indica il titolo di un suo lavoro, sono per lo più Colori crudeli che, raramente complici e se lo sono ciò avviene in modo occulto, instaurano rapporti rari e tendenzialmente conflittuali fra loro. Le gradazioni, qualcosa di respirante e sottilmente sensuale, e le temperature del colore, difficili, frequentemente introverse oppure troppo sfacciate nella loro acutezza o sordità, sempre inusuali ai nostri occhi, diventano ancor più perturbanti per via dei loro accostamenti arditi, rischiosi, sempre portati quasi al limite della sgradevolezza. Ma poi, osservando con più attenzione e più a lungo, il rischio che il nostro sguardo ha corso si trasforma in nuova e inedita esperienza di piacere, un piacere che trova parentela con quello derivato da un esercizio fisico che obbliga a muovere muscoli del corpo abitualmente dimenticati, intensificando la sensazione di esser vivo con l’aumento della propria consapevolezza.
I colori hanno spessore fisico e psicologico; sono prima di tutto forze reali e materiche anche se hanno un imponente portato simbolico, infatti , per una loro caratteristica primaria e primordiale, in ogni cultura anche se in modo diverso, sembrano mettere in contatto con determinati campi di energia; stimolano associazioni, producono effetti psichici, evocano vissuti ed esprimono stati d’animo. Come scriveva Goethe, “ [...] L’esperienza insegna che ogni singolo colore dona un particolare stato d’animo. Di un francese ricco di spirito si racconta: il prétendoit que son ton de conversation avec Madame étoit changé depuis qu’elle avoit changé en cremoisi le meuble de son cabinet qui était bleu” . Ciò che ci fa sorridere nella vita come se fosse una butade è vero in pittura: nelle tele di Sartorio anche il più impercettibile cambiamento si ripercuote sul resto della superfie.
Anche se è sulla base delle esperienze cromatiche compiute in natura che scaturiscono gli accenti emozionali principali di un colore, nella pittura di Sartorio i colori s’incaricano di una forte ambiguità: risultano al tempo stesso “cosali”, urbani, industriali, artificiali e “atmosferici” . Assumono connotazioni sofisticate, non sono eloquenti e neppure dicibili. Un certo lilla, per esempio, profondamente ambivalente come conviene alla sua natura derivata dalla mescolanza di due colori primari con valenze “opposte”, il rosso e il blu, sembra da un lato, per via di un effetto “quasi metallizzato”, provenire direttamente, senza alcun intervento da parte dell’autore, da un barattolo di vernice industriale e al tempo stesso partecipare alla ricca, colta e “nobile” tradizione cromatica della storia dell’arte, che costituisce una sorta di natura “di secondo grado”. Quel lilla infatti porta su di sé, nel suo stesso corpo, la memoria e l’emozione dell’uso che di quel determinato colore è stato fatto da alcuni artisti–in questo caso penso soprattutto alle Ninfee di Monet, mentre i gialli di Sartorio sanno di Crivelli, i bianchi e i grigi perlacei richiamano Savoldo, gli azzurri e i rosa sembrano derivare da Pontormo, i verdi sulfurei da Grunewald e Bronzino, mentre l’accostamento tra quell’arancione e quell’antracite riporta a Bacon...e così via...
Colori attivi, impuri, preferibilmente scostanti, più o meno sotterraneamente “agitati”, non docili e neppure immediatamente accattivanti; ognuno è a suo modo disturbante e portatore di una strana sonorità.
I colori di Kill Bill sono quelli “tecnologici” , altamente artificiali del cinema in technicolor, dell’universo virtuale del digitale, davvero al limite del kitsch, si veda soprattutto quell’arancione così sottilmente repellente, poco luminoso e decisamente malato.
(Sembra non si possa parlare del colore che in modo scientifico e asfissiante oppure poetico e approssimativo).
Il colore si assesta in determinate strutture, non parlerei di forme se non per dire che il quadro nasce dalla relazione che lega tanto intimamente forma e colore da far sì che siano corpo unico nell’unità dinamica della riga. La declinazione e la combinazione delle righe danno luogo a strutture di colore empiriche e plurali ad alto potenziale generativo, vere e proprie “armature” che funzionano come macchine pittoriche attivando dinamicamente lo spazio bidimensionale della superficie. Nelle composizioni di Sartorio si possono scorgere in filigrana ricordi della ricca avventura della cultura visiva per lo più occidentale ma non solo; per esempio in Mandala , oltre al suggerimento iconografico proposto dal titolo, sembra di cogliere una parentela con la partitura cromatica e spaziale della Trasfigurazione di Raffaello.
La riga è per Sartorio ormai da tempo la “figura” d’elezione; egli la predilige certamente per la ricchezza e la complessità della sua funzione visiva, deve averla scelta in quanto indice della continuità del divenire, segnale del flusso inarrestabile, essenza e perno del movimento, vettore direzionale, transito; azione dunque (non forma).
Del resto ciò che a volte può essere percepito quasi come un rettangolo non è altro che una linea interrotta e troppo vistosamente ingrossata . “La riga non è una forma [...] : è una struttura” .
La riga sembra anche funzionare come indicatore di suono, visualizzarne l’intensità, la frequenza e la durata.
La riga non è mai neutra, è provocante, netta, dritta, volitiva, vistosa, attraente, sonora, prepotente, stridula, implacabile, irriducibile, chiassosa, veloce, speciale, emblematica, eccentrica, esclusiva. Funziona da guida, osa , spinge e spezza, è indomita e selvaggia, rivoluzionaria, crea discontinuità e scandalo. È marcata, audace, inquieta, problematica, trasgressiva, sospetta, tradizionalmente maligna, addirittura diabolica, comunque pericolosa. La riga segna e segnala, discrimina, introduce differenza; è differenza, scarto. È ambigua e irresistibile, stringe e allenta lo spazio, afferma e nega, sottolinea e sbarra.
La riga è alterità, eccedenza, eccezione, sovversione. La riga costruisce, corre, è veloce, slitta, si agita e fugge; altera, destabilizza, confonde, distorce, interrompe, taglia. La riga allerta, allarma, mobilita, è attiva e coercitiva, ingaggia la superficie in un appassionante “andirivieni”.
“La rigatura non solo fa vedere e contemporaneamente nasconde, ma è anche la figura e insieme lo sfondo, il finito e l’infinito, la parte e il tutto: Per questo ogni superficie rigata appare spesso incontrollabile, quasi inafferrabile” .
La riga è “figura” perturbante per eccellenza; è invito e barriera, discordia conclamata.
“ La rigatura non viene mai da sola. Perchè essa “funzioni”, perchè acquisti tutto il suo senso, occorre che essa sia opposta o associata ad altre strutture di superficie [...]” . La riga non è mai sola , almeno nella pittura di Sartorio, ma slancio e attitudine alla moltiplicazione. Ritmo. Ogni riga qui viene contenuta, arginata e tenuta a bada da un’altra. Quale di esse è stata dipinta prima e quale dopo? Ci vuole più di un attimo per saperlo.
La superficie della tela vergine viene scossa dal suo torpore bianco e immacolato per mettersi in movimento e in trazione come attraverso un sistema di elastici e farsi progressivamente spazio di spazi diversamente articolati in un sistema complesso di accordi reciproci.
Seduzioni e sedizioni delle righe.
Dalla difficile “messa a punto” di un dialogo fra righe, che procede soprattutto nell’ultima fase realizzativa attraverso una serie d’interventi di sottili variazioni tonali, viene a formarsi l’impianto complessivo del dipinto composto da griglie percettive a costruzione geometrica forte ma difficilmente decodificabile al primo sguardo - c’è un rapporto figura/sfondo? cosa è in primo piano?
Esperiamo così i limiti delle nostre capacità di decodificazione e riconoscimento di quanto è posto davanti ai nostri occhi.
Il quadro è la risultante finale dell’azione combinata delle forze cromatiche, direzionate secondo gli assi ortogonali e convenientemente modificate nei loro valori: uno spazio che sminuisce il valore dell’uni(vo)cità del centro e i vincoli posti in genere dai bordi, rimpiazzando la gerarchia con la coordinazione di numerosi centri locali. Le superfici di Sartorio, che sono come zattere mobili o tappeti volanti, organizzate, come scrisse Arnheim, secondo “una griglia di vettori eccentrici che si muove in direzione verticale e orizzontale senza alcun ancoraggio” , sprigionano un potere quasi ipnotico in particolare quando l’attenzione viene a fissarsi nei punti d’incontro e d’incrocio delle linee dove si formano a volte gangli pulsanti, che sembrano appunto affermare e contemporaneamente contraddire il proprio peso. Le sovrapposizioni di linee portano a parziali cancellazioni e interruzioni che instillano dubbi sull’uniformità della linea stessa che sembra assumere colorazioni diverse durante il suo percorso. Difficile è stabilire se questo effetto sia procurato dal riverbero e dall’influsso dei colori vicini o se davvero il pittore ha mescolato il colore divertendosi a variarne quasi impercettibilmente la natura. Nelle superfici di Sartorio in genere sono vere entrambe le ipotesi.
Non sono teorie quelle che gli guidano la mano; le strutture non sono mai precedentemente stabilite né tramite l’esecuzione di uno studio preparatorio e neppure nelle intenzioni astratte dell’autore: il quadro è un organismo che cresce sotto le mani del pittore dalla costante e reciproca “messa in rapporto” delle sequenze cromatiche distribuite sulla superficie che si assestano temporaneamente in un susseguirsi di relazioni fino al raggiungimento dell’assetto ritmico finale e definitivo. È l’occhio a decidere se il dipinto finalmente funziona nel suo complesso e se davvero a quel punto qualsiasi altro intervento non potrebbe che rovinarne l’equilibrio oppure portarlo troppo altrove.
Nello spazio dei quadri di Sartorio anche il fattore tempo ha un suo ruolo preciso: la percezione alle prese con le sue strutture cromatiche, che producono feconde incertezze dello sguardo, agendo come sollecitazioni simultanee multiple, dissonanti e perfino contraddittorie, richiede un certo tempo per assestare e comprendere (non capire sul piano logico, ma comprendere a livello visivo) l’evento pittorico a cui siamo chiamati come testimoni.
Esporsi alla visione dei dipinti di Sartorio significa essere implicati in curiose esperienze, obbligati a verificare la complessità dell’atto percettivo e ad assumere la coscienza del fatto che ciò richiede tempo. La proposta risulta ardita , ancora più ardita una volta messa in relazione con la fretta congenita dei nostri tempi.
Borderline è un polittico composto da quattro elementi che funziona da prova visiva dell’indicazione fornita dal titolo, per altro efficacemente estensibile a definire l’intera opera di Sartorio senza perdere la certezza di non tradirne l’essenza più intima: la sua pittura ama avventurarsi in zone pericolose, sporgersi sull’abisso delle possibilità, rischiare continuamente le vertigini.
Ogni quadro è una porzione di spazio che partecipa all’impeto d’infinità delle linee. Ritmo. Ogni quadro è una sorta di “zoommata” che mette in evidenza determinati comportamenti visivi che funzionano in modo “altro” rispetto al resto, a quanto già portato precedentemente all’attenzione. Doppio Gioco, dittico composto da due tele di formato quadrato, che mette in evidenza in un gioco molto serrato di reciprocità proprio la relazione tra l’eccezione e la regola, costituisce il migliore esempio del fatto che il lavoro di Sartorio si basa soprattutto sullo scarto.
Il formato quadrato , con quella sua propensione alla “centricità” per via dell’uguaglianza dei lati e degli assi, è spesso frequentato dall’autore, forse proprio perchè probabilmente rappresenta una sfida molto gustosa. per quel che riguarda i formati va detto che, così come fin qui Sartorio non si è dimostrato propenso ad usare linee che non siano rette, non ha mai scelto né il tondo e neppure l’ovale, mentre, oltre al già ricordato quadrato, ama il rettangolo, tanto nel suo sviluppo verticale quanto orizzontale.
Ogni quadro pone una serie di problemi temporaneamente risolti in quel determinato modo. Ossia: ogni quadro è una somma di comportamenti assunti dalle righe colorate della superficie, la testimonianza dell’azione simultanea delle decisioni prese di volta in volta nel vasto panorama delle possibilità che si spalancavano davanti alla tela ad ogni intervento. In altre parole, ogni quadro è un attestato del valore processuale della pittura.
Della pittura (e della decorazione ) astratta mantiene il carattere antillusionista e metonimico: i quadri sono porzioni potenzialmente infinite di spazi relativi.
Tutta la pittura di Sartorio nasce da una sorta di sfida, che per estensione acquista perfino un valore etico e politico; la sfida consiste principalmente nel chiamare in causa e “mettere in ritmo” una serie di elementi che difficilmente potrebbero interagire e instaurare un dialogo e, attraverso una serie progressiva di cambiamenti, giunge finalmente a rischioso e proprio perciò prezioso accordo delle forze in campo.
La pittura di Sartorio è principalmente realtà della pittura, voce di ragioni dell’occhio e corpo di fatti percettivi decisi momento per momento, ma funziona anche come metafora dell’esistenza umana fatta di difficili relazioni, contrassegnata da tensioni complesse e spesso antagoniste, i cui equilibri, non già sperimentati ma sempre nuovi, sono di volta in volta da ricercare con impegno e faticosamente.
Una pittura che è una sorta di richiamo all’importanza e all’inevitabilità del dubbio come fattore metodologico, un chiaro invito a non dare mai nulla per scontato e ad analizzare attentamente le componenti delle esperienze che ci si presentano.
Si può senza difficoltà affermare che Sartorio è pittore moderno fra i postmoderni poiché crede ancora che la pittura possa funzionare da modello per la realtà, porsi come esempio possibile.
Ciò che ne traiamo è principalmente una lezione di pluralismo: il suo è un linguaggio non solo orgoglioso di dire e capace di rispettare la diversità, ma su questa addirittura esso si fonda interamente e si articola proprio a partire dalle spinte antagoniste delle forze in campo. Ci indica la fertilità della pratica del dubbio e la ricchezza della differenza.

Elisabetta Longari
per il catalogo della Mostra alla Galleria Rubin di Milano - 2004

APPUNTI E CONTRAPPUNTI

Di Aurelio Sartorio

La scelta del formato è il primo atto creativo del dipingere. È una decisione molto importante perché l’organizzazione dello spazio interno al quadro è in stretta relazione con la forma e la dimensione del supporto (la stessa tela rettangolare collocata in orizzontale o in verticale darà origine a due quadri molto diversi) (...). Le righe creano la struttura, la “norma” del quadro; i colori la confermano o la contraddicono.

Il dipingere procede attraverso un processo dialettico, in un susseguirsi di tesi e antitesi che approdano alla sintesi del quadro finito. Prediligo i colori visivamente ambigui, che attivano l’intelligenza percettiva di chi guarda (azzurro-grigio, azzurro-lilla, lilla -rosa giallo-verde ecc.), quelli non convenzionali, i molto scuri (a prima vista neri in realtà verdi, blu, viola o bordeaux), o molto chiari (i quasi bianchi).

Taglio i colori puri abbassando o sporcando la tonalità con altri colori o desaturandoli con il bianco. Dedico molto tempo alla ricerca cromatica e spesso il compimento di un quadro avviene variando di pochissimo il valore tonale di un colore. Gli accostamenti azzardati e dissonanti enfatizzano il carattere indeterminato e cangiante delle cromie rendendole vibranti, innescando una sollecitazione percettiva della mente che contraddice ciò che l’occhio vede.

Uso il bianco (i bianchi) come un colore non come assenza o vuoto (...). I miei quadri non sono progettati, non eseguo bozzetti o simulazioni; quello che decido prima di cominciare un lavoro è la dimensione e la forma del supporto.

Comincio a dipingere con un approccio molto libero, non so ancora in quale direzione andrò. La prima fase del lavoro è anarchica, liberatoria, uso i colori che ho a portata di mano o ne preparo di nuovi, sperimentando miscele e tonalità, senza curarmi della “qualità” della pittura, non mi interessano le conseguenze di ciò che dipingo. È un momento sperimentale e frenetico, cerco di interrompere il flusso del pensiero e lavoro quasi a caso. Riconosco e rincorro: citazioni, associazioni, ricordi, fantasmi, idee, suggestioni che poi scompaiono. Questa è anche la circostanza in cui “scopro” colori, accostamenti e organizzazioni dello spazio/colore che razionalmente forse non avrei mai considerato.

Gradualmente recupero il controllo del pensare/dipingere e comincia un dialogo tra me e il quadro. Di solito cerco una struttura /colore che dia il “la” al dipinto, poi comincia la costruzione: aggiungo, sovrappongo, ripeto, cambio, sposto, sommo, sottraggo, elimino strutture e colori da prima più liberamente, poi quando il quadro prende una direzione precisa l’intervento si fa sempre più più meditato (...).

Gli interventi diventano via via sempre più precisi e meditati, la struttura si stabilizza, le parti che non hanno più senso vengono sacrificate anche se sono costate giorni di lavoro; in realtà non sono perse, restano percepibili “sottopelle” e contribuiscono a formare il corpo e la memoria di una materia/pittura con una qualità tattile che il quadro altrimenti non potrebbe avere. Struttura e colore si fondono definitivamente. Comincia la fase di “ricerca dell’accordo”; la messa a punto delle tonalità, della saturazione e temperatura delle varie tinte, un lavorio di pesi e contrappesi, dove variazioni anche minime possono cambiare completamente la percezione e il valore di colori così aleatori. Il giusto tono, il punto di equilibrio dinamico fa convivere istanze apparentemente inconciliabili, dunque risolvere il quadro.

Aurelio Sartorio, articolo pubblicato sulla rivista "META"

EFFETTIVO-AFFETTIVO

di Elisabetta Longari

“E’ sconcertante, in effetti, il vuoto in cui il nostro pensiero si perde quando tenta di afferrare in che cosa consista la realtà di una persona”.
Roberta de Monticelli, La conoscenza personale,

Tutto si può far risalire all’intenzione di Paola Mattioli di fare un ritratto fotografico ad Aurelio, a lui e alla sua pittura (del resto non potrebbe essere altrimenti: ciò che siamo coincide largamente con ciò che facciamo).
Questa occasione si è rivelata fondamentale: ha sollecitato in lui una riflessione su quello che è e potrebbe essere il ritratto e gli ha fatto nascere il desiderio di restituire quello stesso dono.
Eppure non lo ha distolto dall’assolutezza della pittura; ma lo ha portato in qualche modo a “farla passare dal monologo al dialogo”, prendendo per la prima volta spunto da una realtà esterna a sé, ma non evidentemente estranea.
Questo ciclo di ritratti si configura infatti originariamente come risposta, come dono all’Altro del proprio punto di vista sull’Altro.
Ogni dipinto di questa serie deriva dall’esperienza diretta che Sartorio ha di un determinato individuo, con cui ha instaurato un rapporto e di cui può dire di avere una certa conoscenza.(Niente di epidermico, quindi). A questa persona il quadro è rivolto e dedicato: ad un Altro effettivo e “affettivo”.

La scelta di fare dei ritratti astratti non deve sembrare né una contraddizione in termini nè l’annuncio di un ripensamento sul piano della prassi e della poetica. Dimostra semplicemente una vocazione al paradosso che preserva l’ambiguità essenziale delle persone, delle cose, del mondo. Non è neppure una sfida più ardua che dipingere qualsiasi altro soggetto. È semplicemente il modo di portare ad uno stato d’incandescenza la natura problematica del ritratto, e quella della pittura stessa e del suo rapporto con la realtà.
Il ritratto astratto dichiara apertamente di configurarsi innanzi tutto come problema pittorico (non psicologico, o metafisico o anedottico). Liberandosi immediatamente dalla funzione di rappresentare vicariamente qualcuno, pretende la sua estraneità ai problemi
della somiglianza e della verisimiglianza e si schiera automaticamente dalla parte della “verità del sentire” e quindi del vedere.
Portando in primo piano le radicali istanze di ogni interpretazione (libertà e relatività), il ritratto astratto sembra volere preservare, e riuscirci, soprattutto quel qualcosa di lontano ed enigmatico, ”cifrato” e “geroglifico” del nostro essere.
Allo stesso tempo il ritratto di Sartorio sembra rispettare in modo sostanziale la propria “doppia”, ambigua valenza etimologica: il ritratto come rappresentazione/ripresentazione e come sottrazione, allontanamento.
Sartorio sceglie tra diverse morfologie e diverse cromie quelle più adatte ad “inscenare” la percezione che egli ha di ciascuno. Ad ognuno mette sotto gli occhi ciò che vede e crede essere “l’asse generatore” di quel qualcuno. Mescola indifferentemente i piani interpretativi, evidenziando di alcuni individui soprattutto gli aspetti fisici del corpo, mentre di altri sottolinea lati più o meno evidenti della personalità, di altri ancora, invece, per lo più pittori, sembra avere in mente soprattutto il lavoro.

Questa disinvoltura sul piano interpretativo prova la verità di quanto afferma Simmel a proposito della percezione: “Come abbiamo un’esperienza totale, così abbiamo anche una percezione totale” che, solo per ataviche ragioni di ordine filosofico sviluppatesi nell’ambito della cultura occidentale, risulta scomponibile nelle dimensioni dello “spirituale” e del “corporeo”.
Profondamente diversi fra loro sia dal punto di vista dell’organizzazione dello spazio sia per l’impiego dei colori (anche se Sartorio afferma di aver usato qui cromie a lui abitualmente lontane), questi ritratti presentano alcune costanti, le stesse costanti che si rintracciano del resto agilmente in tutta la più recente pittura dell’artista. Soprattutto la natura del corpo del colore il suo organismo caldo, la sua fisiologia ricca e la qualità “lavorata” delle stesure che “incorporano” il tempo come dimensione inevitabile alla gestazione, alla sedimentazione, alla realizzazione giocano un ruolo fondamentale. Conferiscono ai campi, seppure calibratissimi, una decisiva attitudine alla mobilità, un loro modo di strutturarsi quasi a carattere “momentaneo”, come “figure” che sono “momenti” di un flusso rispondente al processo vitale e al suo divenire.
“Il ritratto ha il compito di presentare l’unità sovratemporale della personalità”, come scrive Florenskij ; ma è altrettanto vero che esser vivi significa non raggiungere mai un “assestamento”, una “definizione”, che la nostra condizione comporta la difficoltà, l’impossibilità di crearsi e mantenere permanente un’idea di sé e degli altri. E’ soprattutto in relazione all’immagine di sè che si impone maggiormente questa impossibilità, che irrompe la cecità. Tanto è vero che le persone “ritratte” da Sartorio hanno avuto molte difficoltà a riconoscere sè stesse, mentre di fronte alle “immagini altrui” senza fatica ne hanno identificato il soggetto.
Pertanto il ricorso al piccolo formato un formato standard al quale siamo profondamente abituati nella vita quotidiana, quello di un foglio di carta A4, che palesa ulteriormente la lontananza di questi ritratti da ogni intento monumentale assume qui un senso quasi da “specchio portatile”.
PS . Anche io avrei voluto restare nei limiti dello stesso formato, ma le parole “dicono” meno delle immagini.

Elisabetta Longari
Ginestrei (Madonna del Sasso), agosto 1999.